È difficile oggi ignorare gli elementi di violenza. Ogni giorno ne sono permeati i media da dove ci arrivano immagini di azioni violente che spesso lasciano basiti per efferatezza. Ma senza entrare in fatti di cronaca, ci sono eventi violenti nelle esperienze relazionali di tutti i giorni. Nella clinica ci capita, come psicologi, di interfacciarci con tematiche di questo tipo.
Ogni volta che non è possibile vedere gli altri (mariti, mogli, figli, lavoratori, istituzioni) come portatori di una diversità non riconducibile al proprio punto di vista, lì ci sono i prodromi della violenza.
Una delle difficoltà che rileviamo è che spesso le discussioni intorno ad eventi violenti si fermano alla ricerca dei fatti. Il chi, il cosa, il come sono centrali e le motivazioni spesso si riducono ad una mera descrizione dei fenomeni. Ma se rimaniamo ancorati solamente ai fatti il rischio che corriamo è quello di abbandonare la strada del senso, del “perché” e le emozioni che hanno originato le azioni diventano impensabili.
Sarebbe invece importante che ogni persona si desse la possibilità di prendersi cura delle proprie emozioni, capirne il senso, riuscendo a riferirlo a sé e alla relazione. Ed è ciò che permette di uscire dalla prigionia della propria immaginazione.
Alcune parole
Sentiamo spesso un uso eccessivo di alcuni termini. Un esempio sono i sostantivi “vittime” e “carnefici”. Sono termini che, nella loro uso semplificato danno l’illusione di comprendere la realtà, che diviene capace di spiegarsi da sola. Chiunque legga un giornale, dove questi termini vengono usati, è portato a farsi un’idea di quello che è successo. Questa riduzione della complessità ritengo sia pericolosa perché organizza il nostro modo di guardare e si è orientati a costruire contesti congruenti con quelle simbolizzazioni. Ma non solo. Operiamo una scissione delle qualità contraddittorie dell’altro in buone e cattive, che rimangono separate e non sono integrabili in un unico quadro coerente.
Gli uomini al Centro Prima: emozioni utili a leggere la violenza
Ci sono emozioni che più di altre emergono nei racconti dei pazienti se parliamo di violenza. La solitudine, per esempio, è un’emozione che spesso possiamo rintracciare. Percepirsi soli ha come caratteristica quella di eliminare l’altro o allontanato perché differente. “Sono stato costretto a fare questo gesto perché per lei io non esisto”. Potrebbe essere utile fare il gioco di attribuire questa frase ad un contesto. In questo caso è di un uomo che ha picchiato una donna ma una frase simile è stata usata anche da un ragazzo di 20 anni che stava parlando del suo rapporto con la madre e del gesto rischioso che ha compiuto per attirare forzatamente la sua attenzione.
Traduciamo questa frase nell’emozione di volersi sentire accettati, costi quel che costi. Se non c’è spazio per l’altro nella relazione, può esserci solo il potere dell’uno sull’altro. In alcune relazioni sembra non esserci differenza tra sé e l’Altro. Anzi, si potrebbe dire che l’altro diventa quella parte di sé che non si può riconoscere e che si sposta fuori. Allora quella parte, non più attribuibile a sé, si trasforma nella parte di qualcun altro. Diventa una parte di sè “nemica” e per questo potrà essere maltrattata, picchiata, mortificata e nei casi estremi, uccisa.
L’obbligo è un’altra emozione interessante ed è uno degli attivatori principali del circuito della violenza. Se ci si sente obbligati e si tratta tale vissuto come realtà, ci sentiamo in carcere. Il limite, rappresentato da quello che l’altro desidera, viene trasformato da una parte in colpa, facendo di tutto per riparare (perché “non sono così come tu mi vuoi”) e dall’altra parte, in rabbia (“perché “non sei così come vorrei tu fossi”). Se è l’obbligo l’emozione che regola la relazione, allora si ha l’opportunità di andare oltre il concetto di vittima e il carnefice ma ciò che salda – in modo perverso e del tutto disfunzionale – alcune relazioni (Fedeli, Fini 2017).
L’impotenza, infine, è il comune denominatore sia della colpa che della rabbia ed emerge quando fallisce la pretesa di fronte alla diversità dell’altro che a questo punto può essere solo costretto.
La violenza allora, come dicevamo all’inizio, è data dall’impossibilità di accettare che l’altro sia diverso e che possa esprimere quello che è, liberamente. E tale violenza si può manifestare in modi diversi: combattendo l’altro direttamente o cercando di sedurlo. Anche la seduzione è una forma di violenza a ben guardare. In entrambi i casi al centro della relazione c’è il potere, la fantasia di possesso dell’altro. In queste forme relazionali è precluso del tutto lo scambio. Si tratta di relazioni violente perché non producono niente altro che competizione per l’affermazione delle proprie certezze e della propria realtà come l’unica dimensione emozionale possibile (Fedeli, Fini 2017).
Dott.ssa Alessia Fedeli, Psicologa e Psicoterapeuta Centro Prima
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